Con la sentenza n. 7364 del 16 marzo 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla nozione di trasferimento d’azienda, soffermandosi soprattutto su quello che è il pensiero e la disciplina della Corte di Giustizia Europea in materia.
Gli Ermellini, rispolverando consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, hanno affermato che, ai fini del trasferimento di ramo d'azienda di cui all'art. 2112 c.c., è da considerarsi elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e, dunque, di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni rilevanti da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione.
Dunque, “la cessione di ramo d'azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi”.
Il significato di trasferimento di ramo d'azienda appena descritto è perfettamente coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria”.
La Corte dell'Unione ribadisce costantemente che, al fine di determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l'applicabilità della direttiva in materia di trasferimento d'impresa, è necessario “prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo d'impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un'eventuale sospensione di tali attività”, ma “questi elementi, tuttavia, sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente”.
I Giudici di legittimità hanno inoltre sottolineato che la ratio della disciplina comunitaria è volta ad assicurare la continuità dei rapporti di lavoro che esistono nell'ambito di un'attività economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario e, dunque, ha lo scopo di proteggere i lavoratori nella situazione in cui siffatto cambiamento abbia luogo; essa, infatti, riguarda il “ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti”, per cui non è direttamente incidente nei casi in cui non si controverta del “mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti" presso la cessionaria, in difetto dei presupposti previsti dal diritto dell'Unione”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Tutela del minore e mandato d’arresto europeo
In tema di mandato d’arresto europeo non può essere rifiutata la consegna allo Stato richiedente, solo perché la persona alla quale lo stesso si riferisce sia madre di prole con lei convivente, di età inferiore ai tre anni
L’autorizzazione alla consegna della madre
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Messina aveva disposto la consegna di una donna alle competenti autorità giudiziarie della Svezia, in considerazione del M.A.E. emesso dalla Corte distrettuale di Stoccolma nell’ambito di un procedimento penale pendente che vedeva coinvolta la donna per reati tributari commessi in qualità di legale rappresentante di due società con sede in Svezia.
La Corte territoriale italiana aveva disposto la consegna della donna non avendo ritenuto fondate le ragioni avanzate dalla difesa in relazione, tra l’altro, alla sua condizione di madre di una bambina di età inferiore ai tre anni.
Avverso tale decisione veniva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, evidenziando, tra i diversi motivi d’impugnazione, la ritenuta violazione dell’“art. 1 comma 3 della Decisione quadro 2002/584/GAI, correlato all’art. 48 Carta di Nizza, ed all’art. 2 Cost. in relazione all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) ed all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), per effetto della mancata considerazione della condizione di madre di una bambina di due anni”.
A tal proposito, la difesa aveva evidenziato che è “onere dell’autorità giudiziaria dello Stato richiesto verificare se l’esecuzione del mandato di arresto europeo possa essere lesivo delle garanzie costituzionali e dei diritti fondamentali garantiti dalle convenzioni sovranazionali”. In ragione di tale onere, spiega la difesa, la Corte aveva errato nel non aver compiuto alcun vaglio circa il danno che sarebbe derivato a carico della figlia della ricorrente dall’esecuzione del mandato, visto il suo radicamento in Italia, nonché le relazioni create con le insegnanti e con i compagni di classe.
Cassazione: l’onore probatorio spetta alla parte
La Suprema Corte, con sentenza n. 51798/2023, ha ritenuto il ricorso non fondato.
Per quanto in particolare attiene al motivo di ricorso oggetto del presente esame, la Corte ha ritenuto non fondata la ritenuta violazione normativa incentrata sulla qualità della ricorrente quale madre di bambina di due anni, essendo intervenuta l’abrogazione dell’art. 18, lett. p), della legge n. 69/2005.
Sul punto, osserva la Corte, l’art. 2 della legge n. 69/2005 non consente l’introduzione di motivi di rifiuto alla consegna diversi ed ulteriori da quelli previsti dalla legge quadro di derivazione europea, così come anche affermato dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 216/2021 che ha messo in rilievo che, l’esigenza di garantire l’uniformità e l’effettività della normativa a livello europeo, non consente alle autorità giudiziarie degli Stati richiesti di rifiutare la consegna al di fuori dei casi espressamente previsti dalla normativa sul M.A.E. In questo senso, prosegue la Suprema Corte “il d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10 ha operato una generalizzata soppressione di tutte le disposizioni interne difformi dalla disciplina europea al fine di adeguare la normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI relativa al mandato di arresto europeo”.
Inoltre, la soppressione del sopracitato art. 18, lett. p), secondo quanto riferisce il Giudice di legittimità “si giustifica sulla base della presunzione che negli Stati UE la tutela delle madri di figli di tenera età è assicurata nei sistemi processuali-penali in modo coerente ai principi di diritto affermati anche dalla convenzione europea”.
Quanto detto è anche confermato sul piano normativo, dalla direttiva (UE) 2016/800 che tutela, a livello europeo, il superiore interesse del minore indagato o imputato e che impone agli Stati membri il rispetto delle garanzie procedurali nei loro confronti, conformemente a quanto previsto dalla CDFUE; ne consegue che, se tali garanzie sono previste ed assicurate da tutti gli Stati che hanno firmato la CDFUE, nei confronti dei minori indagati ed imputati, allora le stesse sono tanto più applicate in favore dei figli minorenni della persona di cui è stata richiesta la consegna. Tale presunzione “costituisce il fondamento dell’emissione del mandato di arresto europeo, ed è onere della parte allegare elementi concreti di valutazione che possano suffragarne la violazione da parte dell’ordinamento dello Stato emittente, che non può essere perciò dedotta in modo soltanto ipotetico e astratto”.
La Corte conclude quindi il proprio esame sul punto ribadendo che è “onere della parte allegare circostanza concrete che dimostrino che nello Stato richiedente vi siano sistemiche carenze strutturali che non consentono di tutelare i diritti del minore, e solo se tali carenze risultino dimostrate si giustifica il rifiuto della consegna”, questo in quanto “il rifiuto di eseguire la consegna è concepito come una eccezione che deve essere interpretata restrittivamente”
Calcio, Superlega, UEFA e FIFA: sentenza storica della CGUE
CGUE: le norme adottate dalla UEFA e dalla FIFA, che impongono la loro previa autorizzazione per le competizioni calcistiche interclub, violano il principio della libera concorrenza ed il diritto dell’unione europea
I protagonisti della vicenda: UEFA, FIFA E Superlega
Il caso sottoposto all’attenzione della CGUE vede fronteggiarsi da una parte la UEFA e la FIFA e, dall’altra parte la Superlega. Prima di passare all’esame della questione di diritto sottoposta alla Corte europea vediamo brevemente chi sono i suddetti soggetti.
La Fédération internationale de football Association (FIFA) e l'Unione delle associazioni calcistiche europee (UEFA) sono associazioni di diritto privato, che perseguono principalmente l’obiettivo di promuovere e definire il quadro per il calcio a sia livello internazionale che europeo.
Nel regolamento adottato della FIFA si legge, per quanto qui interessa, che la stessa ha competenza ad autorizzare e a stabilire i requisiti per l’organizzazione di incontri o competizioni tra squadre appartenenti a diverse federazioni calcistiche nazionali, membri della FIFA. È inoltre previsto all’art. 6 che tutte le partite internazionali devono, a seconda dei casi, essere autorizzate dalla FIFA. Medesima autorizzazione è prevista nei casi di partita internazionale, così come disciplinato agli artt. da 7 a 11 del regolamento.
Nello statuto della UEFA è previsto invece che la stessa ha la giurisdizione esclusiva ad organizzare o abolire le competizioni internazionali in Europa alle quali partecipano le Federazioni affiliate e/o i loro club. È altresì previsto che gli incontri, le competizioni o i tornei internazionali che non sono organizzati dalla UEFA, ma si svolgono sul territorio della UEFA, richiedono la previa approvazione della FIFA e/o della UEFA e/o delle relative Associazioni affiliate in conformità con i Regolamenti FIFA.
L'ESLC è una società di diritto privato che è stata costituita su iniziativa di un gruppo di società calcistiche professionistiche, che persegue l’obiettivo di realizzare un nuovo progetto di competizione internazionale di calcio professionistico denominato «Super League». Anche la A22 Sports Management SL è una società di diritto privato che è stata costituita per fornire servizi legati alla creazione e alla gestione di competizioni di calcio professionistico, più specificamente del progetto Super League.
La questione posta all’attenzione della CGUE
La questione giunta all’esame della Corte europea si è essenzialmente sostanziata nell’interrogativo, posto in sede di rinvio pregiudiziale, se costituisca o meno abuso di posizione dominante, nonché violazione del concorrenza e del diritto europeo in generale, l’attuazione di norme, da parte di federazioni responsabili del calcio a livello mondiale ed europeo (che esercitano anche diverse attività economiche relative all'organizzazione delle competizioni), che si sostanziano nel subordinare alla previa approvazione delle federazioni stesse l'organizzazione, sul territorio dell'Unione europea, di una nuova competizione calcistica interclub.
Quanto sopra, anche considerando che l'inosservanza di tali norme è passibile di essere sanzionata dalle suddette federazioni; tra le sanzioni sono annoverate, in particolare, l'esclusione delle società calcistiche professionistiche inadempienti da tutte le competizioni organizzate dalla FIFA e dall'UEFA e il divieto di partecipazione dei giocatori a competizioni interclub, nonché il divieto di partecipazione agli incontri tra squadre rappresentative delle federazioni calcistiche nazionali.
CGUE: contrarietà al diritto europeo, abuso di posizione dominante e violazione della concorrenza
La Corte europea (con sentenza 21 dicembre 2023, C-333/21), dopo aver ripercorso i fatti storici e le argomentazioni formulate dalle parti in causa, è passata all’esame della normativa applicabile e della giurisprudenza di derivazione europea formatasi sul punto.
A tal proposito la CGUE ha affermato che, nel caso di specie, la FIFA e l'UEFA esercitano entrambe un'attività economica consistente nell'organizzazione e nella commercializzazione di competizioni calcistiche internazionali e nello sfruttamento dei diversi diritti relativi a tali competizioni ed in tale veste, considerato il regime normativo e autorizzativo dalle stesse imposto, “entrambi detengono (…) una posizione dominante, o addirittura un monopolio, sul mercato rilevante”.
Per quanto invece attiene alla ritenuta lesione della concorrenza sul piano europeo, la Corte ha constatato che “in mancanza di un quadro che preveda criteri sostanziali e norme procedurali dettagliate idonee a garantirne la trasparenza, l'oggettività, la precisione, la non discriminatorietà e la proporzionalità, (…) norme in materia di previa approvazione, partecipazione e sanzioni come quelle di cui trattasi nel procedimento principale rivelano, per la loro stessa natura, un grado sufficiente di danno alla concorrenza e hanno quindi per oggetto di impedirlo. Rientrano quindi nell'ambito di applicazione del divieto previsto dall'articolo 101, paragrafo 1, TFUE, senza che sia necessario esaminarne gli effetti reali o potenziali”.
In questo senso, ritiene la Corte che il “regime di sfruttamento esclusivo di tutti i diritti derivanti dalle competizioni calcistiche interclub professionistiche organizzate dalla FIFA e dall'UEFA (…) possono essere considerate come aventi come «oggetto» quello di impedire o restringere la concorrenza sui diversi mercati interessati ai sensi dell'articolo 101, paragrafo 1, TFUE, e come costituenti un «abuso» di posizione dominante ai sensi dell'articolo 102 TFUE (..). Ciò è tanto più vero quando tali norme sono combinate con norme sulla previa autorizzazione, sulla partecipazione e sulle sanzioni, come quelle oggetto delle questioni precedenti”.
Pertanto la CGUE ha ritenuto che UEFA e FIFA abbiamo, con il loro comportamento anticoncorrenziale ed abusivo, violato il diritto europeo.
La decisione della Corte
La CGUE ha concluso il proprio approfondito esame, fornendo, con la sopracitata sentenza, la propria interpretazione degli artt. 102, 101 e 56 del TFUE ed affermando, in particolare, che l'organizzazione di competizioni calcistiche interclub e lo sfruttamento dei diritti mediatici devono essere qualificati come attività di tipo economico e, come tali, devono rispettare le regole poste dal diritto europeo sulla concorrenza, sulla libertà di circolazione e sul divieto di abuso di posizione dominante. Per effetto di tali obblighi, la Corte ha dunque ritenuto che le norme adottate dalla FIFA e dalla UEFA in tema di approvazione preventiva, controllo e poteri sanzionatori, debbano essere considerate illegittime.